R.I.P (parte 2)

720x405-GettyImages-57367217Tanto più un artista è grande tanto più diventa difficile parlarne, analizzarne l’opera, formulare un ricordo. E poi che bisogno c’è di “ricordare” uno come David Bowie, veramente qualcuno può pensare che la sua persona, le sue opere corrano il rischio dell’oblio? Chiunque ami la musica ha una sua canzone dentro, un album, un’immagine, un ricordo, un tuffo al cuore. L’immagine…pochi sono riusciti come lui a comprenderne sino in fondo le potenzialità, lo slancio verso il cambiamento, sempre con quel desiderio quasi spasmodico di non farsi ingabbiare da niente e nessuno a costo di distruggere ciò che faticosamente si è creato, pronto poi a ripartire nuovamente verso terre e pianeti nuovi. Immagine strumento di marketing si, ma soprattutto citazione (spesso) colta, strumento di provocazione, di slancio verso il nuovo, ariete contro stereotipi vecchi e polverosi, spalla a sostenere nuove istanze, nuove richieste di libertà. Il rapporto col proprio corpo vissuto senza falsi pudori, in modo coraggioso, sfrontato e, a differenza di altri, mai pacchiano. E una volta raggiunto l’obbiettivo, quella grande capacità di cambiare, di non farsi ingabbiare in comodi e redditizi clichè, il cambiamento come linfa vitale. Ogni sua cover meriterebbe una menzione, un racconto, ma mi limiterò a quelle che mi sono più care, a partire da quella di “The man Who Sold The World” (1970) con quell’immagine sessualmente ambigua e decadente.

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Non piacerà quello scatto alla RCA che la sostituirà, nella ristampa per il mercato europeo, con uno  di Brian Ward, bello sin che volete, ma lontano anni luce dalle intenzioni di Bowie che intendeva con lo scatto originale “citare” lo stile del pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti.

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Curiosamente questo album uscirà con una cover differente per il mercato americano, per il quale verrà utilizzato il lavoro dello scrittore e disegnatore Michael Weller, un disegno con in primo piano un cowboy ispirato a John Wayne e sullo sfondo il Cane Hill Hospital, l’ospedale dove il fratello di David, Terry, trascorrerà la maggior parte della vita.

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Per il mercato tedesco la Mercury optò invece per una fold out cover con un disegno che definire bizzarro è poco.

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Un personaggio molto vicino a Bowie in quel periodo è Freddie Burretti, giovane designer di moda e sarto, conosciuto da David e dalla moglie Angela a El Sombrero, una discoteca gay molto trendy in quegli anni; Burretti realizzerà diversi costumi per Ziggy Stardust e per altre successive incarnazioni  dell’artista inglese.

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Greta Garbo sarà una chiara fonte di ispirazione per la cover del successivo “Hunky Dory” (1971), album seminale che verrà pubblicato, finalmente, in tutto il mondo col medesimo artwork.

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“Ziggy Stardust (The rise and fall of… and the Spiders from Mars)” (1972), la storia dell’alieno sceso sulla terra, lo consacrerà a rockstar, giusto il tempo perché lui stesso ne annunci il “suicidio artistico” durante un memorabile concerto all’Hammersmith Odeon davanti ad una platea di ragazzine in lacrime. Altra cover indimenticabile, con una citazione “cinematografica”, Bowie e gli Spiders ritratti nella busta interna in stile Arancia Meccanica.

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Rinascerà poco dopo nei panni dell’Aladino Pazzo (1973),

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fotografato da Brian Duffy e con l’ennesima citazione, nella cover interna, di un precedente scatto realizzato dallo stesso Duffy per il calendario Pirelli del 1973.

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In una delle canzoni dell’album Bowie nomina la modella Twiggy (Twig the wonderkid in Drive in Saturday), creando così un link che li porterà a posare insieme per la rivista Vogue in una serie di scatti realizzati dal fotografo Justin De Villeneuve. Lo scatto prescelto avrebbe dovuto rappresentare un novità assoluta nella storia della rivista di moda inglese, vale a dire la prima volta di un maschio in copertina; bastarono però alcune esitazioni in proposito da parte della redazione perché Bowie prendesse la palla al balzo chiedendo a De Villeneuve di poterlo utilizzare come cover del nuovo album “Pinups” (1973) (tradotto letteralmente “da appendere”, quasi volesse essere considerato una sorta di icona da appendere al muro, al pari delle tante famose sex symbols dei decenni precedenti).

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La collaborazione con l’artista belga Guy Peelaert non stupì più di tanto, vista anche l’attenzione che quest’ultimo aveva dedicato al rock negli ultimi anni. La cover di “Diamond Dogs” (1974) venne immediatamente ritirata dal mercato a causa dei genitali del Bowie/Cane giudicati sconvenienti e cancellati nelle edizioni successive.

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E’ un album apocalittico e l’artwork non è da meno, provocatorio, inquietante pieno di citazioni, come quelle che ispireranno la postura di Bowie (Josephine Baker) o le creature alle sue spalle (Alzoria Lewis e Johanna Dickens).

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I settanta si avviano alla seconda metà e per David Bowie è già tempo di andare oltre…il sottile duca bianco è alle porte, anticipato dal raffinato dandy di “Live at Tower Philadelphia” (1974)  e “Young Americans” (1975), sbocciato poi in “Station To Station” (1976).   DavidliveYoung_americans

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La direzione musicale è ormai lontana dal glam di pochi anni prima, le scelte sempre più innovative  e personali, quelle scelte grazie alle quali ci consegnerà la splendida trilogia berlinese composta da “Low” (1977), “Heroes” (1977) e “Lodger” (1979).

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Author Box paolo

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